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Messaggio Da Ospite Mer 28 Nov - 20:56:42

visto il tema di un altro topic volevo postarvi questo...
per chi avrà voglia di leggerlo...per chi avrà voglia di leggere qualcosa sui "servi dei servi dei servi" o come le chiama qualcuno "le guardie infami"...

Dice Antonio: «Ti hanno mai pisciato addosso? Voglio dire, hai idea di che cosa significhi sentirti zuppo della puzza di qualcuno che si tira fuori l’affare e si svuota sulla tua testa, mentre hai l’ordine di startene immobile,con il tuo casco e la tua tuta, nel boccaporto di una curva, perché altrimenti, il lunedì, dicono che sei stato un irresponsabile a seminare il panico tra chi sta guardando la partita? Eh? Ne hai un’idea? A me è successo nello stadio di Perugia un paio di anni fa e sento ancora il tanfo». Antonio, quarantotto anni, è una “guardia”. Come Filippo, trentanove, e come Lorenzo, trentacinque (sono nomi di fantasia che proteggono le loro reali identità, note a Repubblica). Un «servo dei servi dei servi», come gli cantano nelle piazze e negli stadi del nostro Paese.
È un “celerino” della polizia di Stato, in servizio in un importante reparto mobile. Filippo scherza: «Almeno il piscio è ignifugo e non ti hanno “acceso” come Lorenzo». È successo a Genova, nel luglio di sei anni fa. In piazza Tommaseo. I giorni del G8. Una molotov. Lorenzo posa il boccale di birra che sta bevendo, si alza come un Cristo in croce: «Qui. Mi è arrivata qui, sul petto. Un paio di secondi e non vedi più un cxxxo, perché la retina è accecata dalla vampata. Senti solo le urla dei colleghi che ti stanno intorno e, usando le mani e gettandoti per terra, pensi a fare alla svelta quello che ti hanno insegnato per spegnerti da solo e non accendere chi ti sta intorno»
Tira una brutta aria di scontro generazionale. Ragazzi contro poliziotti. L’area “antagonista” è carica di risentimento per i fatti del G8: una brutta pagina, esplorata malvolentieri, raccontata peggio, fra reticenze, mezze ammissioni e bruschi ripensamenti. Fra quelli che due domeniche fa
hanno devastato mezza Italia non mancavano i simpatizzanti dell’estrema destra. In molti, troppi ragazzi, dominano diffidenza, rancore,astio, e, per usare una delle parole più amate delle curve “nere”,rabbia. E, dopo i tragici fatti di Arezzo, ragazzi che non hanno mai esercitato, in vita loro, nessuna forma di violenza, canticchiano sarcasticamente sparatece addosso sparatece a tutti. Nello stesso tempo,chi lavora quotidianamente a stretto contatto con la polizia non può che apprezzarne l’alta professionalità, e compiacersi per certi risultati eccellenti, come la cattura dei latitanti o la risoluzione (ad onta del chiacchiericcio dei salotti mediatici) di complessi casi criminali.
Ma ci si può rassegnare a un’immagine così schizofrenica? Da una parte la polizia buona, sana, efficiente e per giunta così democratica che ti cattura il capobastone senza sparare un colpo né sporcarsi le mani nemmeno con un amichevole buffetto. Dall’altra le asprezze della strada, la repressione, il manganello, l’immancabile (e puntualmente ricorrente nella storia patria) pallottola vagante. La strada.Che ha le sue leggi, le sue regole non scritte e persino la sua lingua Se, come me quel giorno, hai il culo di indossare una tuta ignifuga e non perdi la testa, resti vivo e con la pelle con cui ti ha messo al mondo tua madre. Se no, bene che ti vada, ti ritrovi scuoiato dal calore».
Antonio, Filippo e Lorenzo guadagnano milletrecento euro netti al mese. Più o meno il soldo di un operaio specializzato. Dovrebbero lavorare sei giorni su sette, sei ore al giorno, ruotando su quattro turni (07-13; 13-19; 19-01; 01-07). Dovrebbero. Dicono non vada mai così. «Lavori fino a quando c’è bisogno. Sai, forse, quando cominci.
Non sai mai quando stacchi». Per ogni ora di straordinario, sei euro. La domenica,dodici euro forfettari. «Che, in busta paga, vedi dopo quattro o cinque mesi ». Nessuno li ha costretti a infilarsi in una tuta da ordine pubblico. Né la fame, né l’analfabetismo,né il luogo di nascita. Dice Antonio: «Se i ragazzi mi permettono, visto che ho i capelli bianchi e ho cominciato nel ‘79 nel reparto mobile di Padova, ti dico: dimentica Pierpaolo Pasolini. I suoi celerini non esistono più. Quando ero un ragazzino, nei mezzi che ti portavano in piazza e in cui aspettavi non doveva volare una mosca
e, se proprio trovavi qualcosa da leggere, era qualche giornaletto porno. Oggi, nei nostri Ducato, i colleghi ciattano sui portatili,leggono quotidiani, ascoltano l’ipod. Non lo vuole capire nessuno. O forse fanno finta di non capirlo, perché fa comodo per poterci dare allegramente dei subumani. Sia quando si tratta di fare un po’ di scaricabarile nelle nostre gerarchie,sia quando la politica, tutta la politica, destra e sinistra, decide di coprire le provocazioni di chi ha deciso di fare bordello in strada. Respiriamo la stessa aria, abbiamo gli stessi desideri e viviamo immersi negli stessi gran casini di quelli che ci troviamo di fronte nelle piazze e negli stadi. Il problema dell’affitto. Quello della “terza settimana”.Quello di non far sembrare tuo figlio,a scuola, diverso dagli altri perché alterna sempre le stesse due paia di scarpe.
Quello di tua moglie che si è rotta di non vederti mai e un giorno la trovi con un altro».
Lorenzo annuisce. Valle Giulia la conosce anche lui. Ma non per Pasolini, che ne scriveva quando ancora non era nato. Perché ha mollato la facoltà di architettura al terzo anno, «con tutti trenta e lode». Conosce l’arabo. Ha studiato il Corano. È di destra. «Molto di destra». Come Filippo, laureato in scienze politiche, ex degli “Irriducibili”,gli ultras della Lazio. «Quando dissi a mia madre che la facevo finita con la curva e che entravo in Polizia, credo sia stato il giorno più bello della sua vita. Peccato non sapesse ancora che quel giorno sarebbe stato il presupposto di quello più brutto.Successe la prima volta che le portai a casa da lavare la mia tuta da ordine pubblico. La tirò fuori dal sacchetto e vide che la schiena era imbrattata di scaracchi grandi come pizzette. Si mise a piangere senza avere il coraggio di chiedermi niente». Antonio preferisce non dire per chi vota. La mette così: «Sono stato per qualche anno nella scorta di Enrico Berlinguer, ho protetto Arafat in uno dei suoi viaggi a Roma, quando lo cercavano americani e israeliani e bisognava impedire che lo facessero sparire. In quel periodo mi davano della “guardia rossa”. Poi succede che, dopo il G8 di Genova, chiacchiero con un giornalista di un quotidiano di sinistra. Gli racconto la mia storia e quello che penso e lui si scusa. Mi dice che non scriverà, perché ha bisogno di un celerino fascista. Un poliziotto e basta non serviva».Eppure la politica c’entra. Eccome. Lorenzo:«Nei reparti trovi di tutto. Dal comunista,all’anarchico, a quello che vota Ds o Forza Italia. E spesso ci si scazza. Una volta mi capitò di trovarmi con due colleghi.Uno era ebreo. L’altro un vero e proprio nazista. Beh, dopo un servizio si attaccarono di brutto. E non ti sto a dire cosa uscì dalle loro bocche. Dopo di allora, li ho visti difendersi e proteggersi in piazza come fratelli. Forse perché la strada gli aveva mostrato il volto ipocrita della politica e con lei quello delle scelte di ordine pubblico ». Racconta Antonio: «Accade che all’inizio di una settimana veniamo messi di servizio a una manifestazione di antagonisti e ce ne stiamo a fare da spettatori mentre qualche decina di dementi fa la spesa proletaria in un supermercato. Accade infatti che l’ordine è quello di assistere immobili.
Di non provarci neanche a farli smettere, perché la direttiva è non cedere alle provocazioni. Io il furto lo chiamo reato e sarei anche un ufficiale di polizia giudiziaria,ma tant’è. Non sono nato ieri. Bene,passano un paio di giorni e ci ritroviamo in piazza Montecitorio, con gli operai del Sulcis. Hai presente, no? Ragazzi e padri di famiglia che si fanno il culo duecento metri sotto terra, lasciandoci un pezzo di vita ogni giorno, per portare a casa meno soldi del sottoscritto. Va tutto bene, finché uno di questi operai che chiedevano inutilmente di essere ricevuti nel palazzo della politica ha l’idea di scavalcare una delle transenne che proteggono la zona di rispetto della piazza. Non l’avesse mai fatto.Riceviamo immediatamente l’ordine di caricare e facciamo a pezzi quei poveretti. Uno dei miei, alla fine, piangeva. Si è avvicinato a uno degli operai più malconci e gli ha dato il suo sacchetto con la roba da mangiare. Volevano metterlo sotto processo disciplinare. Dopo una settimana così, pensi significhi qualcosa dire sono di destra o di sinistra?». Filippo annuisce: «Per non parlare di certi parlamentari. Arrivano alla testa dei cortei con il tesserino in mano e capisci che sta per cominciare una recita che umilia tutti. Ti racconto una storia soltanto, l’ultima. Sgombero dei rumeni a Roma. Li raccogliamo nelle baraccopoli e ne concentriamo un po’ nell’ufficio per il decoro urbano della Ama, a Ponte Marconi, dietro il cinodromo, in attesa di trasferirli verso la frontiera. Arriva l’onorevole di Rifondazione Francesco Caruso alla testa di un centinaio di ragazzi. Da quello che si capisce, vogliono impedire pacificamente il trasferimento dei rumeni,bloccando l’uscita dei pullman. E la cosa,politicamente, ci sta. Bene, sai che accade?Dopo un po’ si avvicina a noi del reparto e dice: “Ma che ve lo devo insegnare io come si fa? Caricate i rumeni sui vostri mezzi di ordine pubblico e fateli uscire da un altro ingresso. A quel punto noi ce ne andiamo e siamo tutti contenti”. Siamo tutti contenti? Chi è contento di partecipare a una farsa? I rumeni? Noi celerini? I ragazzi che sono venuti lì per impedire lo sgombero?».

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Messaggio Da Ospite Mer 28 Nov - 20:57:08

Antonio, Filippo, Lorenzo continuano a raccontare, scendendo ogni volta un gradino in più nel loro microcosmo. Filippo spiega che, una volta abbassata la visiera, l’elmo che indossano amplifica i rumori della piazza o dello stadio, lasciandoti per ore un senso di ottundimento. Che quell’insopportabile e indistinto rumore di fondo, alla fine, ti fa concentrare soltanto sul tuo respiro, trasformandolo in un’ossessione acustica. Lorenzo dice che quando sei in strada «devi dimenticare chi sei,come ti hanno educato tuo padre e tua madre,altrimenti diventi pazzo e reagiresti come non devi». Ma in fondo stanno girando intorno a una verità che fanno fatica a esprimere, finché Filippo non la rovescia sul tavolo delle birre che hanno continuato ad ammucchiarsi per tutta la sera, come fosse un rigurgito. «Sai che penso davvero?Che l’uomo sano è nella tuta da ordine pubblico. Che ti devo dire, forse penso questo perché è la mia unica via di uscita psicologica. Forse perché l’unico momento in cui non mi sento solo in questo Paese è quando divido la piazza e gli stadi con i miei colleghi». «È vero», dice ora Lorenzo.«Perché non può che essere solo chi è servo dei servi dei servi. Ma servo della possibilità che questo Paese resti democratico.La strada, dove il poliziotto è coniglio o infame,e chi si maschera per spaccare tutto, semplicemente, stradaiolo. Ora, alla gente comune gli stradaioli fanno paura, e se ne chiede, puntualmente,la repressione. E i brillanti successi dell’Antimafia lasciano del tutto indifferenti gli stradaioli.Non è che esistano due polizie. È la percezione della divisa che divide nettamente gli stradaioli dal resto del mondo. Non è più, come ai tempi della famosa lettera di Pasolini per i fatti di Valle Giulia, uno scontro di classe. Quando si schierò dalla parte dei ragazzi del Sud in divisa contro i figli dei borghesi che giocavano alla rivoluzione, Pasolini osò infrangere,una volta per sempre, il tabù, caro alla sinistra del tempo, di una sbirraglia braccio armato della repressione politica. Nell’immaginario pre-sessantottino, il poliziotto era “questurino”, “piedipiatti”: figura che non autorizzava nessun trasporto, nessuna epica. Erano, quelle parole di Pasolini che tanto fecero discutere, uno schiaffone al conformismo dei luoghi comuni e l’apertura di una linea di credito verso i volti, i corpi, i sentimenti di giovani che non potevano, non dovevano essere mandati in guerra contro altri giovani. Parole pesanti: perché provenivano da un comunista e da un omosessuale,in quanto tale violentemente perseguitato.Oggi, a quarant’anni di distanza, lo sbirro e il giovane stradaiolo sono un’altra volta l’uno di fronte all’altro. Un’altra volta giù nella strada. Dove il confronto è immediato e diretto e non ci sono mediazioni che tengano. Non è più il tempo di Valle Giulia, ma i luoghi comuni esistono anche oggi. Si chiamano “pochi estremisti”, “emergenza ultrà” e via dicendo. Oggi la lettera nobile e ispirata del poeta non farebbe nessun effetto. Nella violenza di strada, oggi, c’è qualcosa di diverso, a un tempo più atroce e amaro. Nella strada lo “sbirro” è la faccia più visibile dello Stato. Nell’aggredire questa figura, simbolica e reale, gli stradaioli ci scagliano contro una violenza che non è più ideologica, non è più politica, ma ha il sapore di una profonda disperazione esistenziale. È un sapore di vite precarie, soffocate da un senso di esclusione che si fa ribellione,più simile al riot, alla sommossa spontanea, che a intenti sorretti da chissà quale disegno strategico.
Il tifo calcistico, la curva eletta a luogo di elaborazione di un pensiero mitico, strutturato intorno a poche parole d’ordine da difendere a ogni costo,la Bandiera, la Fede, l’Onore, tutto questo può costituire persino un alibi, ma non spiega né esaurisce l’ampiezza e la trasversalità del fenomeno.
Il giovane poliziotto è, in questo momento, ora e adesso, l’incarnazione di un “sistema” che alimenta promesse vane sapendo di non poterle mantenere.
È il volto degli inafferrabili e lontani banchieri che decidono del nostro destino e, indifferenti alla
nostra carne viva, ci considerano “numeri” aziendali. È l’immigrato, un poverocristo che ha il solo torto di venire da un altro mondo e che accusiamo di rubarci il lavoro. È l’arcigno guardiano della soglia di una felicità riservata agli altri, ai predestinati,ai fortunati, agli integrati. Per questo si colpisce lo “sbirro”. Ora, poiché le strade non possono diventare teatro di guerriglia, indagini e repressione devono fare il loro corso. Ma la repressione,da sola, non basta. Se non vogliamo continuare a consolarci con la storiella dei “pochi facinorosi” o, peggio, rassegnarci a perdere un corposo settore dei nostri giovani, li dobbiamo convincere,con i fatti, che lo Stato non è Moloch divoratore di innocenti, che non si può essere disperati né a vent’anni e nemmeno a trenta. Che dietro il volto del giovane poliziotto non si nasconde la maschera del Nemico.“Respiriamo la stessa aria, abbiamo gli stessi desideri e viviamo immersi negli stessi casini di chi ci sta davanti: il problema dell’affitto, quello della terza settimana...”E vuoi la prova? Domenica 11 novembre, il giorno della morte di Sandri, ero allo stadio Olimpico. Sai quanti dei nostri sono finiti all’ospedale? Trentasette. A un certo punto ci sono venuti addosso con un’accetta. E, come è noto, avevamo l’ordine di non reagire. Lunedì mattina, tutti hanno chiesto scusa. Il capo dello Stato, il ministro dell’interno, il capo della polizia. Tutti hanno giustamente chiesto scusa alla famiglia di Sandri. Qualcuno ha chiesto scusa ai reparti celere che a Roma, Milano, Bergamo, Parma hanno sopportato di tutto e di più? A quelli che sono finiti in ospedale, come un collega che ha quasi perso un occhio per una bomba carta? Non ha chiesto scusa nessuno. Chiedere scusa è troppo? Diciamo allora, qualcuno ha ringraziato i “servi dei servi dei servi”? Nessuno. E allora perché dovremmo meritare rispetto? Perché un ragazzino di quattordici anni dovrebbe capire che non sta bene scrivere su un muro “uno, dieci, cento, mille Raciti”?».
Antonio, Filippo e Lorenzo sono sicuri che i giorni della collera e dell’odio sono solo all’inizio. E che la ferita di Genova e del G8, mai rimarginata, può solo tornare ad aprirsi, ad infettarsi della linfa velenosa degli stadi. A Genova c’erano anche loro. Su Genova, Filippo sta scrivendo un romanzo:
«È cominciato tutto lì. Anche se non so se troverò mai qualcuno che lo pubblicherà.
In fondo, a chi può interessare il racconto di quei giorni attraverso gli occhi di un celerino? Non è importato a nessuno per sei anni. Perché dovrebbe importare oggi? Ma non me ne frega nulla se resterà solo un manoscritto. Fa bene a me ricordare quei tre giorni in cui è stata sospesa la legalità. E perché è accaduto. E come».Ora salutano. Lorenzo infila la mano nel cassetto della sua auto. Ne estrae due cd.«Tieni, te li regalo. Così sai cosa ascolto quando mi infilo la tuta da ordine pubblico e quando me la tolgo tornando a casa da mio figlio». Johann Sebastian Bach: Variazioni Goldberg, Gloria in excelsis Deo.

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